Conversazione-Intervista e Visita al Museo

di Fulvio Fagiani - UTOPIA21 - Settembre 2019 - www.universaur.it/utopia21


Con Anna Maria Vailati (AMV) ed Aldo Vecchi (AV) vado a far visita al Museo delle Tecnologie dell’Antropocene (The Museum of Anthropocene Technology), ideato e realizzato da Frank Raes (FR), già capo dell’unità del Joint Research Centre della Commissione Europea che si occupa di cambiamenti climatici. Nel testo dell’intervista non mi soffermo sugli oggetti esposti al Museo, per suscitare nel lettore la curiosità di andarlo a vedere di persona a Mombello (VA), Con Frank Raes abbiamo parlato di cosa ha ispirato l’idea del Museo, ma non abbiamo potuto esimerci dall’intervistarlo su Antropocene, clima e l’operato del Joint Research Centre e la Commissione Europea.

Sommario. Da quali idee e suggestioni nasce Il Museo. Quali oggetti e come sono cercati. Pensieri sull’Antropocene. Riscaldamento climatico a 2°C e a 1,5°C. Ce la possiamo fare? Scienziati, umanisti e artisti. La comunicazione al Joint Research Centre. Cina e India. Vuoti della comunicazione ambientale. Soluzioni individuali e soluzioni collettive. Sfiducia e competenza.


FF) Qual è l’idea alla base del Museo?

FR) Penso, con tanti altri, che siamo in un secondo Rinascimento; come il primo andava dal Medioevo alla modernità, il secondo va dalla modernità a qualcosa di nuovo, che ancora non conosciamo. Nel Rinascimento le camere delle meraviglie, le Wunderkammern sono state importanti per passare al pensiero moderno, perché si è cominciato a raccogliere, a sistematizzare, a creare delle categorie. E’ quello che voglio fare nel mio museo, riprodurre l’atmosfera delle camere delle meraviglie, raccogliere gli oggetti della modernità, per creare altre categorie.
   Il filosofo che ho come guida è Bruno Latour, che parla della Costituzione Moderna. Per lui le separazioni operate dalla modernità sono invenzioni teoriche, come le separazioni tra scienza e arte o tra cultura e natura, perché nella vita pratica non ci sono queste separazioni, ci sono solo ibridi.Prendiamo il cambiamento climatico: è un fenomeno naturale, ma causato dall’uomo, a gestirlo non ci vuole solo la tecnologia ma anche una nuova cultura, quindi educazione, arte, ...e ciò gli conferisce la natura di ibrido. Latour chiede di tornare con i piedi nella realtà, superando le separazioni e accettando gli ibridi. Il museo vuole contribuire al passaggio oltre la modernità.Mi faccio ispirare anche dalle Lezioni Americane di Calvino, da cui traggo quelle che potrebbero essere le nuove categorie, un nuovo modo di guardare il mondo. Dobbiamo guardarlo in modo leggero, rapido, esatto, visibile, molteplice e consistente. Calvino ha scritto una lezione sulle prime cinque categorie. E’ morto prima di scrivere la sesta sulla consistenza, che, secondo me, avrebbe messo insieme e reso coerenti le altre cinque.
   Il museo, che funziona da qualche mese, intende proprio andare oltre le separazioni, e parlare tramite oggetti, stimolando il visitatore a guardare, a ricavarne piacere ed un significato. In questo caso, come si dice, l’importante è il cammino, non la meta.
   (Ci troviamo davanti un disegno dell’Architetto Aldo Rossi) Mi sono ispirato anche ad alcuni architetti italiani che erano molto avanti nel loro pensiero.

AMV) – Aldo Rossi era un neoclassico, molto razionale. Ma è tutta la nostra cultura che è molto legata al mondo classico. Sia Rossi che – a suo modo - Portoghesi hanno ricollegato il razionalismo alla tradizione classica. E poi Rossi in particolare anche all’Illuminismo...

FR) Rossi parlava molto del genius loci, di ciò che è attorno all’oggetto. Ciò che rende un oggetto cosa, cosa complessa e ibrida.

AMV) – Infatti l’oggetto non ha mai avuto un valore solo materiale. Anche nelle culture antiche. Ma è qualcosa di connaturato, l’oggetto si porta dentro la cultura che l’ha prodotto.

FR) Secondo Voi l’oggetto puro non esiste, neanche negli ultimi decenni del consumismo, dell’uso e getta? Secondo me la rapidità di consumare gli oggetti non ci permette più di vedere la cosa  intorno all’oggetto.

FF) Infatti Bauman diceva che l’oggetto del consumo non deve dare soddisfazione, a un certo punto deve venire a noia sennò non si torna a consumare ...

AV) Resta l’importanza del possedere gli oggetti

AMV) Anche l’uomo antico aveva ossessione degli oggetti, a partire dal Villanoviano che ci teneva a possedere vasi greci, come vediamo nei corredi tombali; e poi le collezioni

FR) In Aldrovandi (naturalista a Bologna, nel XVI secolo): la collezione non è sfoggio di ricchezza, ma strumento di studio. Per superare le mitologie medioevali sui mostri, raccoglieva e descriveva per rendere oggettiva la conoscenza

AMV) Da lì più tardi la catalogazione di Linneo...

AV) Abbiamo visto di recente a Milano la mostra sulla cosiddetta Sala del Grechetto: nel Seicento credevano davvero che esistessero gli animali fantastici.

FR) E’ stata una enorme fatica sottrarsi alla mitologia medievale, distinguere tra il naturale e l’artificiale ed il fantastico, il tutto complicato dal divino, dalla necessità di misurarsi con Dio. Ecco invece questa stampa fiamminga del Cinquecento con una balena spiaggiata e la curiosità “scientifica” con cui gli abitanti del villaggio si approcciano a questa realtà sconosciuta.


FF) Ora che entriamo nel “museo” vero e proprio, puoi spiegarci meglio il tuo progetto.

FR)Per tornare all’ispirazione iniziale del Museo: qualcuno, anche Fulvio, mi aveva chiesto di scrivere, ma se scrivi devi mettere una parola dietro l’altra, in sequenze lineari immodificabili, mentre con il museo puoi riallestire, cosa che non si può fare con un libro. Ora c’è un certo ordine, ma tra sei mesi o un anno sarà tutto diverso e cercherò nuovi accostamenti. (Siamo davanti alla riproduzione di un quadro di Turner) Per esempio questo quadro è stato dipinto all’inizio dell’era industriale, che secondo alcuni è anche l’inizio dell’Antropocene. Accanto c’è una foto di una artista parigina, che scatta foto di nuvole e che stampa le foto con la fuliggine inquinante, campionata quello stesso giorno, mescolata all’inchiostro di stampa. Cerco di rappresentare anche iper-oggetti, l’inquinamento in questo caso, o la radioattività̀ o l’elettricità̀: cose che sono dappertutto, nel tempo e nello spazio. Molti oggetti del Museo li ho fatti io, per esempio questi realizzati con gli avanzi del parquet industriale usato nella casa.

AMV) Raccogli gli oggetti secondo un criterio o per combinazioni e caso?

FR) C’è un costante guardare e un fare, con nella testa, ma abbastanza lontane, le idee di cui abbiamo appena parlato. Trovo molti oggetti nei negozi di oggetti di seconda mano, li prendo perché mi piacciono, mi piace la forma per esempio. Poi solo settimane o mesi dopo mi viene una idea per una storia e un’opera. Per esempio questa gabbia di legno, l’ho comprata due anni fa, e solo un anno fa ho cominciato a riempirla con origami di uccelli, morti ... Per me è diventato “La Primavera Silenziosa” di Rachel Carson, una delle prime ambientaliste che ha scritto il libro ‘La primavera silenziosa’ per denunciare gli effetti del DDT. Da scienziato ho seguito la visione scientifica, oggi prediligo l’estetica per guardare alle cose. In realtà un ricercatore e un artista fanno le stesse cose: guardano.

AMV) A proposito di Antropocene e danni causati dall’umanità: per te l’umanità deve vivere per sempre?

FR) Anche a me a volte dicono che l’umanità deve scomparire, ma come posso dire ai miei figli, dopo averli generati, che l’uomo deve scomparire? E, tra l’altro, per colpa dell’avidità di pochi?

FF) Il problema di oggi è che la nostra generazione sta condizionando la vita sul pianeta per secoli e millenni.

AMV) Ma ogni generazione ha condizionato il futuro.

AV) La differenza è che oggi abbiamo consapevolezza delle conseguenze che nel passato non c’era.

FR) Oggi si tratta di cambiamenti rapidi e a scala planetaria. Nel passato c’erano cambiamenti su scala locale, che erano anche abbastanza facili da risolvere. Negli ultimi 200 anni abbiamo visibilmente cambiato p.e. tutta l’atmosfera globale e quindi il clima globale. Non sarà facile tornare indietro.

AV) Io penso che l’inizio dell’Antropocene sia il neolitico, il periodo in cui l’uomo ha iniziato a trasformare profondamente l’ambiente.

FF) E’ una discussione in corso, di cui ho parlato in un recente articolo1. Quello che decide è proprio la scala delle conseguenze. Prima c’erano danni locali, anche ingenti, ma limitati, ora stiamo interferendo con alcuni processi biofisici globali, come il clima, i cicli biogeochimici, la biodiversità.

AV) Ma la somma di tanti cambiamenti locali era globale.

FF) L’impatto globaleè diventato visibile solo poco tempo fa, diciamo 30 anni fa. Fino ad allora i cambiamenti locali non alteravano i processi biofisici fondamentali.

AV) Va considerata anche l’irreversibilità dalla scoperta dell’agricoltura: da allora si è innescata una sequenza di trasformazioni irreversibile. Soprattutto perché, soggettivamente, le comunità umane non hanno mai scelto di tornare all’età della pietra.

FF) Tu dove collocheresti l’inizio dell’Antropocene?

FR) Lo storico Harari dice che l’Homo Sapiens comincia ad intervenire nei processi della natura quando inizia a raccontare delle storie: così facendo fa il salto da vivere in tribù a vivere come popoli che credevano nelle stesse storie. Questi popoli di migliaia di persone diventavano velocemente micidiali per le tribù di decine di persone. Questo accadeva in un tempo collocabile intorno a cinquantamila anni fa. L’Antropocene di cui parliamo qui, però, si collega agli impatti globali. Possiamo collocarne l’inizio con la Rivoluzione industriale o con la Grande Accelerazione del secondo dopoguerra. Ma che differenza fa sulla scala dei tempi? C’è solo una differenza di 200 anni. Prima di allora i cicli della natura erano chiusi: i prodotti di un processo erano le risorse di un altro processo, e niente veniva perso. Poi con l’uso dei fossili abbiamo interrotto i cicli naturali chiusi a favore di cicli lineari che vanno dalla produzione, all’uso e getta.

AMV) E adesso siamo anche tanti.

FF) Si usa fare questo calcolo sull’impatto umano attuale confrontato con quello di inizio Ottocento. La popolazione è sette volte tanto, più di 7 miliardi rispetto ad 1 miliardo, la vita media raddoppiata, da 40 a 80 anni, il rapporto nei consumi medi globali è stimato essere intorno a 10 volte. Se moltiplichiamo i tre impatti, popolazione, vita media e consumi, il calcolo dà 7x2x10 = 140. La pressione umana si è moltiplicata per 140 in due secoli.


AMV) Ma si può fare qualcosa?

FF) Sul clima avrai certo idee chiare, visto che te ne sei occupato per tanti anni.

FR) La scienza parla chiaro. Dobbiamo fare a meno dei combustibili fossili entro il 2050. Questa data varia secondo l’obiettivo: 1,5 °C o 2 °C, e secondo la probabilità con la quale vogliamo raggiungere questo obiettivo. Le tecnologie esistono per raggiungere almeno l’obiettivo dei 2 °C. Il problema è la mancanza di azione politica e, fino a poco tempo fa, la poca consapevolezza della gente. Poi è arrivata una ragazza di 16 anni che fa quello che non siamo stati capaci di fare in tanti anni, scienziati, ricercatori, artisti, politici adulti. Crea una consapevolezza tra i giovani, ma anche tra gli adulti, che fa tremare i politici.

FF) Quanto è realistico l’obiettivo dei 1,5 °?

FR) Vedi, nel 2009 l’accordo di Copenhagen è fallito perché le piccole isole del Pacifico volevano imporre l’obiettivo di contenimento del riscaldamento a 1,5°C, perché pensavano che i 2°C non bastasse. A Parigi, nel 2015, è stato inserito l’obiettivo di 1,5°C per questi piccoli stati, per non fallire di nuovo. Ma molto probabilmente è troppo tardi per il 1,5°C. Ogni abitante del pianeta avrebbe, in media un budget di emissioni di 100 tonnellate di CO2 per l’obiettivo 2°C, e di 50 tonnellate per 1,5°C. Cioè ogni abitante del pianeta non può emettere, nel corso di tutta la sua vita, più di quelle quantità. Ogni anno un italiano medio, per esempio, emette 7-8 tonnellate di CO2, in 12 anni il suo budget per i 2°C si esaurisce, in 6 anni per 1,5°C. Io ho dimezzato le mie emissioni annue in dieci anni, migliorando pure lo stile di vita, ma sono ancora intorno alla media italiana. Un monaco che vive in cella a 15 °C massimi di temperatura, che si muove solo con mezzi pubblici ed ha una vita molto austera, emette ancora 3-4 tonnellate di CO2 all’anno, perché p.e. il trasporto pubblico usa ancora dei vecchi pullman a diesel. Non basta agire a livello individuale. Ci sono i diversi livelli, quello individuale, il Comune in cui si vive, lo Stato, la comunità internazionale. Ogni livello deve fare il possibile per contribuire alla riduzione.

FF) Il problema è il tempo.

FR) Si, bisogna fare tutto in breve tempo. Entro il 2050 dobbiamo arrivare a zero emissioni, per rispettare l’obiettivo dei 2°C. Per 1,5°C ancora prima e, in più, bisogna applicare tecnologie per togliere la CO2 dall’atmosfera, p.e. piantando foreste.

FF) Sul numero di settembre critico Luca Mercalli, in particolare perché per aver messo al centro solo soluzioni individuali, per esempio rinunciare all’aereo, se non per ragioni serie.

FR) Io sostengo che bisogna agire ad ogni livello. In più ogni livello deve influenzare il livello superiore e inferiore perché cerchino sempre di migliorarsi: questo chiamo fare Politica. Al Joint Research Centre, per esempio, si lavora non solo con enti europei ma anche con enti internazionali (p.e. Nazioni Unite) e enti nazionali.

FF) Se è troppo tardi per il raggiungere l’obiettivo del 1,5°C, vuol dire che dobbiamo anche cominciare a adattarci ai cambiamenti in corso.

FR) Esatto. Già da tempo insistiamo che una politica climatica deve basarsi su, primo: la mitigazione, cioè la riduzione e l’azzeramento delle emissioni di gas serra, per evitare di andare oltre i 2 °C, e, secondo, l’adattamento, cioè imparare a gestire e a vivere con i cambiamenti climatici che non sono più evitabili.


FF) Ho presente che nelle tue presentazioni hai sempre inserito considerazioni non solo strettamente scientifiche, ma anche filosofico-umanistiche. Spesso si dice che gli umanisti non capiscono il clima, e gli scienziati non capiscono la società. Che ne pensi?

FR) Non dobbiamo esagerare queste differenze. Capiamo le cose in un modo diverso perché guardiamo anche con occhi diversi, con una mente diversa. Ma questo può solo essere un bene. Prima abbiamo parlato degli ibridi; sono cose che non sono spiegabili o gestibili solo con la scienza, o solo con l’arte o la politica. Dobbiamo collaborare, cioè rispettarci, accettare che un economista p.e. veda il cambiamento climatico come un fallimento del mercato, un fisico come un scontro con la seconda legge della termodinamica. Dobbiamo discutere tutti questi modi insieme e come possono contribuire a una comprensione complessiva e condivisa.

FF) Quando esercitavi la professione di scienziato non ti sei mai sentito frustrato perché economisti, sociologi non ti capivano?

FR) Se fai veramente lo scienziato ti dimentichi di tutto il resto. Ma dopo qualche anno devi necessariamente aprirti. Ho conosciuto Crutzen, che era proprio così, uno scienziato bravissimo, interamente dedicato ai suoi studi, sei giorno su sette. “Così si vince il premio Nobel” mi diceva. Poi però ha scritto l’articolo sull’Antropocene ed è cambiato, è uscito dal chiuso del suo laboratorio, ha cominciato a parlare con le altre discipline. Non é facile, ci vuole pazienza, ma può essere molto stimolante.

FF) Come si parla come scienziato con un pubblico non-scientifico?

FR) Credo che ci sono state tre fasi nella nostra comunicazione sul clima. Nella prima fase abbiamo spiegato dall’alto, come dei professori, come funziona il sistema del clima e perché cambia.. Poi abbiamo usato l’arte, o piuttosto il design, per raggiungere più persone con un messaggio più visivo più gradevole per quello che riguarda la forma. Infine abbiamo capito che bisogna lavorare con gli altri per una comprensione comune del problema. Non funziona se gli scienziati dicono ‘io ho capito il clima e ho la soluzione, ora voi dovete applicarla’. Le soluzioni vanno costruite insieme. Ho istituito il programma ‘RESONANCES’ del Joint Research Centre, che consiste nel creare una mostra realizzata dai nostri scienziati insieme con artisti per parlare del nostro lavoro. In occasione dell’EXPO la mostra era sul cibo, la seconda nel 2017 era sull’ingiustizia. Quest’ anno la terza è sulla Intelligenza Artificiale e sui big data. E’ però un processo lento, perché la cultura e i modi di pensare degli scienziati, ma anche degli artisti, cambiano lentamente. 

FF) Ho notato che molte persone del Centro non s’impegnano come comunicatori, anche solo verso la società locale. Ho trovato rispondenza in pochi.

FR) Non so come la vedete da fuori, ma al Centro si lavora molto. Oltre a fare le nostre ricerche dobbiamo andare a Bruxelles, alla Commissione europea, a presentare le ricerche e a sentire i bisogni. Lavoriamo al 110%. Se dopo tutto questo si chiede anche di andare a parlare all’esterno, molti possono declinare. Alcuni esauriscono il loro impegno nel lavoro.


FF) Noi europei siamo sempre un po’ eurocentrici. Pensiamo che se ci muoviamo noi, il resto del mondo seguirà. Non è più così. Nella tua esperienza, che sensibilità c’è in quel mondo per noi lontano, la Cina e l’India?

FR) Io non so cosa pensa il cittadino cinese. Ho conosciuto dei colleghi cinesi. Uno, che ora ha ottant’anni, diceva vent’anni fa che il governo cinese non aveva mai creduto al cambiamento climatico, lo riteneva una bufala degli europei per promuovere la loro tecnologia. Poi gli scienziati, formatisi in America e in Europa, hanno spiegato che il cambiamento climatico è legato all’inquinamento, per esempio del carbone, che ci sono opportunità per l’economia. Il governo ha capito, ha modificato i piani, ed ora sono i primi nel fotovoltaico, nell’eolico, nelle batterie. In Cina ci sono ancora 500 milioni di poveri, è un grande paese di 1,4 miliardi di persone, e ci vuole un po’ di pazienza, ma le cose stanno cambiando. Però è tutto gestito dall’alto.

FF) E dell’India cosa sai?

FR) Sono più indietro, sono più poveri. Sembra che Modi spinga molto la tecnologia, l’energia rinnovabile, anche se il suo governo mi sembra inaccettabile per altri aspetti. Però dipenderà da loro, cinesi e indiani. Non vuol dire che non dobbiamo fare niente noi. Noi dovremmo sempre essere i primi a agire perché abbiamo le risorse, siamo ricchi. Se noi non agiamo, loro non seguiranno. Dobbiamo dare l’esempio, far vedere che si può avere una società sana e sostenibile.

FF) La Cina ha dato esempi concreti, il limite alla vendita delle auto non elettriche, il piano d’installazione delle colonne di ricarica, sono leader nel fotovoltaico e nelle batterie.


AV) Tornando indietro a quando parlavamo della comunicazione del Joint Research Centre alla comunità locale. Io vedo, anche nelle Università, un grande filtro tra gli scienziati e l’opinione pubblica. Il Centro, nel suo mandato, ha solo di interloquire con i suoi committenti o anche di fare divulgazione?

FR) Abbiamo importanti iniziative di comunicazione. Ogni anno teniamo l’open day, con 10.000 visitatori se c’è bel tempo, abbiamo il centro per visitatori dove ogni settimana passano molte scuole. Ci impegniamo per comunicare la scienza al pubblico. Però dobbiamo avere bene in mente che il Centro lavora per Bruxelles.

AV) Quindi la missione non include la comunicazione al pubblico.

FF) Il Centro pubblica sistematicamente dei report. Cito l’ultimo che ho visto, che s’intitola ‘Water-Energy Nexus’, il collegamento tra consumi idrici ed energetici. E’ un rapporto per la più ampia circolazione nella comunità scientifica.

AV) Ma non c’è una politica per la comunicazione.

FR) Dovrei rileggermi la missione del JRC, comunque il fatto è che abbiamo un ufficio stampa, che tiene i rapporti con la stampa per le iniziative più importanti. Il sito web del Joint Research Centre è, credo, molto accessibile per il grande pubblico. Quindi direi che comunicare fa parte del lavoro al JRC. Ma il primo obiettivo del Centro rimane fare ricerca scientifica e rendere la ricerca scientifica parte integrante dello sviluppo delle politiche europee.

AV) Trovo un divario tra quello che vedo riportato da UTOPIA21 e quello che mi arriva dai giornali, manca un livello intermedio. Forse Enti come il Centro potrebbero avere il compito di raggiungere i mass media e sensibilizzare la popolazione.

FF) Il paradosso vero è che c’è un divario tra ciò che circola nella comunità scientifica, ricerche, rapporti, articoli, e ciò che raggiunge il largo pubblico. In mezzo, per il pubblico colto, non c’è nulla. C’è UTOPIA21!. Quello che scriviamo noi, riprendendolo dagli articoli scientifici, non ha ospitalità in nessun altro strumento.

FR) Vent’anni fa nessuno a Bruxelles sapeva che cosa facevamo qui al JRC. Noi vivevamo nella nostra bolla, facevamo le nostre ricerche. Quando sono arrivato si voleva chiudere, poi il Centro è ripartito anche con una nuova leva di giovani. Ci hanno detto ‘voi dovete lavorare per Bruxelles e fate questo’. Quindi, non facciamo ricerca pura, è una ricerca che deve resultare in fatti e dati, “facts and figures” utili per esempio nelle negoziazioni con altri. Ma questo tipo di ricerca ci permetteva comunque di lavorare con Crutzen, con Hansen, e altri grandi della climatologia.

AV) C’è una schizofrenia nella politica, perché usano le vostre informazioni per agire, a livello europeo, ma non si preoccupano di comunicare all’opinione pubblica.

FR) Può essere un appunto valido. Ma non credo che loro non si preoccupino di comunicare. Lo fanno anche. Ma è anche una questione di mezzi e di tempo. Nei primi 15 anni della mia carriera abbiamo lavorato per creare questo rapporto tra scienziati e policymaker e ora funziona. Adesso vogliamo anche introdurre una componente artistica, per meglio gestire gli ibridi, ma ci vorranno altri 15 anni. Comunque, il JRC sta sempre meno in una bolla.

FF) Che differenza di ruolo c’è rispetto all’Agenzia per l’Ambiente europea?

FR) Loro non fanno ricerca, loro raccolgono dati dappertutto, anche da noi al JRC, e stendono rapporti per il grande pubblico. Questo è il mandato per ogni agenzia europea.

AV) E che fine fanno questi rapporti?

FF) Se vai sul sito li trovi tutti.

FR) Se ho bisogno di qualche dato per una mia presentazione, guardo i loro rapporti.

AV) In televisione, oltre alla trasmissione di Mercalli, lodevole (ma abbandonata), ci sono i programmi per i bambini e i servizi scandalistici alla Report. Il livello intermedio costruttivo manca del tutto.

FF) Prendi anche La nuova ecologia, la rivista che ricevono gli iscritti a Legambiente. E’ un mensile specializzato, molto focalizzato sulle esperienze locali o merceologiche, ma mancano le riflessioni strettamente culturali ‘alla UTOPIA21’. Può darsi che ci sia un vuoto di domanda, per cui se qualcuno pubblicasse una rivista di taglio culturale non la comprerebbe nessuno...

FR) Voi sapete quanto viene letta UTOPIA21?

FF) Abbiamo il contatore di accessi della piattaforma, che però non registra chi riceve direttamente da noi l’indice e salta all’articolo senza passare dalla piattaforma. Questo tipo di utenza non riusciamo a conteggiarla. Il contatore segnala un migliaio di contatti per ogni numero. Sono probabilmente accessi di chi naviga in rete. Certo noi abbiamo un target molto limitato.

FR) Voi avete anche un’impostazione Politica, con la ‘P’ maiuscola, trattate di temi strutturali. Questo mi piace, bisogna cominciare a parlarne in questo modo. La domanda è se c’è un pubblico. Ci sono politici colti, però, come la Merkel, la Thatcher, che erano scienziate, o Obama che aveva dei premi Nobel come consulenti scientifici.

FF) Che ritorni hai dal pubblico a cui vai a parlare in conferenze pubbliche?

FR) Vado molto nelle scuole, le quarta quinta superiore, il mio pubblico preferito. Ci sono tutti: quelli interessati e quelli indifferenti. Di solito sono stupito della loro preparazione, i professori che incontro lavorano molto bene. E si occupano anche di cosa fare, applicano concretamente dei criteri ecologici, per esempio nella raccolta differenziata. Poi c’è il pubblico generico, i già ‘convertiti’, a loro parlo di politiche e di soluzioni individuali. Vedo tanti che riprendono le slide con i telefonini.

FF) A me capita che alla fine della conferenza vengano alcuni, senza farsi sentire dagli altri, e mi chiedano cosa possono fare a livello personale. Per me è una delusione perché sembra che percepiscano che i cambiamenti collettivi sono impossibili e l’unico spazio di miglioramento è quello individuale. Ma le scelte individuali possono molto poco. Se dobbiamo cambiare il sistema della mobilità, per esempio, ci vogliono politiche, non basta la buona volontà dei singoli.

FR) Hai ragione che senza decisioni politiche, cioè le leggi, non risolveremo i nostri grandi problemi collettivi. Ma, ripeto, si deve lavorare su ogni livello, anche quello individuale. L’innovazione, che sia per la mitigazione o l’adattamento, nasce quasi sempre al livello di un individuo. E qui c’è speranza: i giovani bravi non sono più soltanto bravi ma anche responsabili. Non vogliono più lavorare per imprese che inquinano. Piuttosto provano qualcosa del tutto nuovo, e lo fanno con gusto. Credo che l’individuo può fare vedere agli altri individui e ai livelli sopra di lei o lui che si può anche vivere bene e con gioia con un carbon footprint minore.

AMV) C’è il problema della politica. Ci spiegavi che andavate a parlare a Bruxelles, con il livello politico che poi prendeva decisioni. Ma in Italia con chi si può andare a parlare? La politica non se ne occupa perché non porta voti. E il cittadino non agisce perché non pensa che la politica si muoverà.

FR) Qui ci vuole un chiarimento. Il JRC, essendo parte della Commissione Europea parla con i suoi colleghi della CE a Bruxelles, quelli che preparano le direttive europee. Siamosempre a livello del “policy making”. Le decisioni vengono presi dal livello politico, quindi il Parlamento Europeo e il Consiglio Europeo, dove troviamo gli stessi politici, buoni o cattivi, che si trovano in ogni paese. Diciamo che la CE è la parte tecnica. Anche in Italia ogni ministero ha i suoi tecnici con cui gli scienziati delle università e dei Centri Nazionali di Ricerca possono parlare. Quando nella politica poi tira un vento favorevole, i tecnici di solito sono preparati. In Italia si è fatto il conto-energia, per esempio.

AMV) Ci sono cose che funzionano, per esempio la raccolta differenziata in molte parti d’Italia, con ottimi risultati. Ma non c’è una relazione funzionante tra elaborazione scientifica e scelte politiche. Anche dell’Europa si vedono solo i trattati e i limiti economici da rispettare, non si vede l’altro lavoro di cui parlavamo, con dietro una struttura di ricerca.

FR) Sarà vero. La ricerca scientifica è poco visibile, per i vari motivi discussi prima. La ricerca scientifica, quel modo particolare di guardare il mondo, criticamente, senza mai essere compiacenti, e necessaria ma non è sufficiente per cambiare le cose. Poi le cose cambiano comunque, e a volte corriamo indietro, a volte stiamo costruendo la zattera mentre nuotiamo. Non vorrei dare l’idea che in Europa funziona tutto e altrove no. Credo che dappertutto le cose si muovono più o meno, in Europa come in Italia o la Germania o la Svezia. Dappertutto c’è tanto da fare e si sta faccendo.


Fonti.
1. Fulvio Fagiani – ANTROPOCENE, SCENARI DALL’ALTO E DAL BASSO, BUONI SEMI – Articolo pubblicato sul numero di luglio 2019 di UTOPIA21 - https://drive.google.com/file/d/146O1DJSrxxA2BxZjCd5gw3Dtdm2beh9C/view.